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"Sul romanzo" intervista Antonella Cilento

 

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L'intervista di Fabio Cozzi pubblicata il 30/11/2021 sul blog "Sul Romanzo". 

Qui l'articolo originale

Le sudate, splendide carte della letteratura. “La caffettiera di carta” di Antonella Cilento

Antonella Cilento è una scrittrice napoletana, di narrativa e teatro, che è stata finalista nel 2014 al premio Strega con il romanzo Lisandro o il piacere delle donneDa quasi trent’anni conduce laboratori di scrittura e da qui, dall’interazione anche con i frequentanti di ogni età, esce il volume appena pubblicato per Bompiani: La caffettiera di carta – inventare, trasfigurare, narrare: un manuale di lettura e scrittura creativa. È una meravigliosa avventura quella in cui ci conduce Cilento, a contatto con tutti gli esempi di libri citati per farci diventare satolli e soddisfatti di tanta generosità e con la voglia di fare gli esercizi che ci propone nel corso del libro.

L’autrice parla innanzitutto delle sue letture da ragazzina; erano i primi anni Ottanta e i bambini non erano ancora così controllati, forse anche giustamente, come sono oggi. O forse la scuola manteneva un’altra, una più alta consuetudine se la lettura obbligatoria per il primo anno di scuola media erano: Prima che il gallo canti di Pavese, Pane e vino (versione per ragazzi) di Silone e Il mare non bagna Napoli di Ortese.

Proprio il libro di Ortese ha un racconto che cambiò la vita di Cilento; si chiama Un paio di occhiali e parla di una piccola bambina, Eugenia, che è molto “cecata”. I genitori la portano dall’ottico più antico di Napoli, anzi d’Italia, l’Ottico Sacco in Via Benedetto Croce; stesso destino si troverà a vivere la bambina Antonella, quando aveva sei anni, alla quale era stato fatto pesare l’acquisto dei costosi occhiali da non “scassare”, perché le lenti erano di vetro:

«Dunque, i libri non contenevano solo avventura, cowboy e indiani, principi e principesse, ragazzi sperduti e senza famiglia, eroi e fantasmi, guerrieri antichi: la letteratura parlava del mio negozio di ottica e del tormento d’essere bambine miopi. Avevo dieci anni e, ripetiamolo, il dado era tratto.»

Con i partecipanti ai laboratori Cilento tenta in tutti i modi di far capire che la scrittura è soprattutto fatica, che non esiste un’unica versione, che le versioni sono tante e che non ci sarà mai forse quella migliore, ma soltanto quella che si potrà avvicinare alla perfezione (a parte naturalmente quelle fornite dai geni della letteratura):

«A volte sono triste per esser nata e aver scritto in quest’epoca in cui la scelta del rigore e dell’autodisciplina viene presa in giro. Mi mancano gli interlocutori che erano ancora vivi quando ero una ragazzina e altri che ormai mi parlano solo dalle pagine dei loro libri. Ma dei pochi viventi che ci sono e con cui ragiono da vicino o a distanza, sono felice: non siamo soli se per noi brilla di notte la lanterna che Stevenson guardava, da bambino, immaginando sfrenatamente storie.»

Occorre capire che la fatica, lo sgobbo è l’unica soluzione per portare avanti l’arte letteraria, che, come tutte le arti, ha bisogno di una pratica continua, una pratica che implica di scrivere e anche di leggere ogni giorno alla ricerca della pagina migliore rispetto a quella del giorno prima. «Per questo in laboratorio si scrive ogni giorno, si suda, si fatica, si fa e si rifà»; la fatica per chi frequenta i laboratori è anche cancellare le cose scritte prima e ripartire se non da zero, comunque da una nuova sensibilità, da un nuovo inizio. Come sempre, pensiamo di aver scritto qualcosa di fantastico, di unico, ma è poi nella pratica dello scrivere che si deve tentare di non mostrare i tic, le manie della scrittura e fare in modo di far vedere il meno possibile quello che si trova sotto l’iceberg di cui parlava Hemingway.

Cilento in questo libro scrive che la maggioranza dei suoi laboratorianti non mostra che esista differenza tra la tanto amata traduzione in italiano di narrativa soprattutto americana e la tradizione letteraria italiana, che è la nostra lingua, il nostro sangue; senza leggere, non dico amare alla follia, Manzoni o Leopardi, Verga o Pirandello, e arrivando fino ai giorni più contemporanei, Calvino o Banti, Ortese o Arpino, non potremo mai dirci di essere uno scrittore a tutto tondo:

«Una battaglia senza fine per far vedere ai corsisti a quale tradizione appartengono è in corso nei miei laboratori da trent’anni: l’ho persa, in sostanza, ma suppongo di non poter smettere di combatterla fin quando ragazzi che hanno anche belle idee scriveranno storie piene di Brandon e Sam, composte di frasi meno fantasiose di quelle che la signorina Assuntina, che pure mi insegnò a contare, conosceva in italiano, non avendo mai imparato a leggere e scrivere. E tuttavia la signorina Assuntina… ne sapeva più di lingua incommensurabilmente di più ai ragazzi cresciuti a Brandon e Sam, come Giambattista Basile a confronto con certi ministri dei nostri recenti governi. Insomma, se abbiamo una lingua materna, usiamola.»

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