antonella cilento

Solo di uomini il bosco può morire: l'incipit

Da bambina non conoscevo foreste, non ne visitavo. Così come temevo il mio corpo, continuamente malato. Abitavo in città e nella mia città non c’erano alberi, non c’era giardino, non c’erano animali. Le uniche mucche che conoscevo erano quelle con cui giocava Heidi, così come le uniche caprette e gli unici cani che incontravo erano nei cartoni animati. C’era un gatto a casa di mia zia Liva, la friulana, ma era sforesto, cioè selvaggio, e non si poteva toccare. Faceva pipì nel water ma detestava essere carezzato. Tutta la natura che mi era dato conoscere era sul balcone della zia Liva, che in Friuli era nata contadina e a Napoli si era organizzata una sua privata campagna al quarto piano. Vedevo cespugli, alberi, rocce e mare – e animali – solo d’estate, in Sardegna, dove viveva la bisnonna. Quando avevo otto anni un serpente mi tagliò la strada. Ero sulle dune di La Maddalena.

Gli adulti, lenti, venivano dietro di me. Io, baldanzosa, correvo avanti. Era dritto, il serpente, e corto, come mi avevano detto essere le vipere, del cui siero tanto sentivo parlare. Andare in spiaggia con l’ammoniaca per le punture di vespe e api e il siero antivipera era la norma nella Sardegna del 1978, senza stabilimenti, senza ospedali o farmacie, nemmeno un bar, solo piedi e sudore. Eppure le vipere in Sardegna, ho poi scoperto, non allignano. Tornai indietro svelta: e se la vipera era più veloce di me? Non mi facevano paura o schifo i serpenti, anzi. Ma il veleno uccideva? Agli adulti raccontai del pericolo ma, giunti dove avevo visto il serpente, quello non c’era più. Se l’era squagliata. Così sembrò che mi fossi inventata tutto. S’impara presto a temere il proprio corpo. Te lo insegna chi teme e non si conosce. Chi teme, detesta o preferisce ignorare il proprio corpo, insegna ai figli la paura o compie sui figli violenze senza accorgersene. Quand’ero bambina avevo terribili coliche, soffrivo di continue nausee e mi ammalavo di pervicaci febbri. Ogni volta che leggo dei deliri febbrili di Stevenson, della lenta agonia leucemica di Flannery O’Connor, capisco. Capisco come e perché ci si rifugi nelle storie per sopravvivere alla solitudine della malattia e al panico notturno o diurno. Non sono mai stata così tanto malata come loro, né ovviamente ne avrò mai il genio. Tuttavia capisco, tuttavia so. Ho avuto pratica del dolore lungo e persistente e invincibile e ho scoperto presto che, per traversarlo indenne, dovevo raccontarmi storie. In attesa che la colica passasse, cercavo di rilassarmi immaginando d’essere qualcun altro. Spesso la mia malattia veniva dileggiata o sottovalutata: non c’era diritto al dolore ma c’era giudizio: sei debole, esageri, inventi. Scrivo e leggo anche a causa delle continue malattie, quindi. Tutto questo, però, avrebbe potuto essere evitato. Sono nata nel 1970, più o meno negli anni in cui Ivan Ilich scriveva Nemesi medica. L’espropriazione della salute. Si legge nella prefazione: “La corporazione medica è diventata una grave minaccia per la salute. L’effetto inabilitante prodotto dalla gestione professionale della medicina ha raggiunto le proporzioni di un’epidemia.” Pochi anni prima, Dino Buzzati in un suo celebre e assai citato racconto, Sette piani, aveva inscenato una clinica dove si entrava da sani, al pian terreno, e si diventava malati, sempre più malati, salendo di piano in piano, fino al temibile settimo piano, dove i pazienti scomparivano, morivano. La mia generazione e le generazioni dal dopoguerra in avanti, fino ai bambini del nuovo millennio, sono state cresciute in una medicalizzazione spinta, del tutto ignota alla mia nonna centenaria o alla bisnonna sarda nata alla fine dell’Ottocento. E insieme a questa chimica quotidiana, somministrata come integratore obbligatorio, una totale ignoranza della natura e delle sue regole ha invaso scuole e città insieme a una completa incapacità di sentirsi, interpretarsi e alla totale svalutazione del corpo e delle sue percezioni. Il corpo va modificato, controllato, abbellito ma, in Occidente, mai ascoltato. Chiusi in un castello medicalizzato e inquinato, protetti da ogni ipotetico attacco della natura, di cui ignoravamo di far parte, siamo stati coltivati in serra, quindi siamo nati pronti a morire giovani. E ad alcuni dei miei compagni di scuola è capitato, in barba alle classifiche sull’allungamento medio della vita. A morire più che centenaria è stata mia nonna, invece, dopo due guerre mondiali, poca istruzione, poca igiene e nessuna medicina fino all’età adulta. 

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