Il sole non bagna Napoli: l'incipit
E così è capitato anche a me: mentre il fondo dell’occhio si chiudeva alla luce, come uno scuro di antica magione, pensavo: si tratterà di un offuscamento, di stanchezza, magari di una precoce cataratta, della mia voglia di non vedere più ciò che ho troppo raccontato, e poi, all’improvviso, non restava che un angolino di immagini, come in uno schermo rotto, e la città del sogno, Napoli, era scomparsa. O meglio, potevo vederla con un occhio solo, peraltro quello che da sempre ci vede peggio. Avevo la vista zoppa.
Occhio di vecchia, Althénopis, così chiamavano Napoli i tedeschi durante l’occupazione, racconta Fabrizia Ramondino nel suo più bel romanzo. E così, mi accingo a scrivere una guida di Napoli con un occhio solo: in fondo, la città si presta da sempre, romanzesca com’è, a essere visitata da diavoli zoppi, a ospitare monacielli che abitano le vasche degli acquedotti e risalgono per rubare, sedurre mogli sole o portare fortuna.
Una città dove passeggiano numerose donne con occhi di vetro, come racconta stupito Sartre in un suo ricordo, che Fabrizia Ramondino antologizza in Dadapolis: Napoli abbonda di uomini e donne con occhi finti; del resto la più antica ottica d’Italia, l’Ottica Sacco, è specializzata nel dipingere a mano occhi fittizi.
E poi, questa è una capitale piena di nane, come scrive Malaparte ne La pelle, ma è anche il luogo capovolto che magiche lenti ingrandiscono, rendendo vicino il distante, come si legge ne Il cardillo addolorato di Anna Maria Ortese.
Non può stupire che Alexandre Dumas racconti ne Il corricolo, il suo fantasmagorico diario degli anni trascorsi a Napoli, di un fantomatico libro, mai trovato, forse mai scritto, dove si conservano le istruzioni per percorrere l’intera città camminando solo all’ombra.
Insomma, i demoni meridiani che abitano Napoli, pigri, fluttuanti, cannaruti, cioè golosi e affamati, oltre che assetati, lussuriosi e antichi, hanno chiesto un tributo.
Questa storia ti costerà un occhio.
Sicché, mancando sempre qualcosa, questa città che procede per metafore e avanza in una sineddoche variabile, una parola per il tutto, ben si presta a essere selezionata.
Con il retino, anzi con la rètina slacciata dell’occhio, selezioniamo le parole che ci servono.
Finisco in sala operatoria a velocità luce e, mentre mi ricuciono la rètina con ago e filo (il distacco è vasto, niente laser stile Star Wars o Star Trek, ma buona vecchia chirurgia da campo), in sottofondo va della musica jazz e inalo un gas che si unisce a quel troppo di valium, e non so che altro, sparato in vena. Mentre fluttuo nel mio spazio immaginario, eccoli i demoni meridiani.
Sono le luci multicolori che appaiono mentre l’ago cuce l’uovo sodo che è il mio occhio, mentre si cerchia, si taglia, si rivolta e non so cos’altro, il mio povero bulbo oculare.
Sembra proprio Fantasia di Walt Disney: è la prima volta che trovo interessante stare in camera operatoria. Guardo il miracolo della luce impazzita, percepisco la fragilità del corpo ma sono anche rapita da questo cinema di fantasmi: ecco il mio datore di lavoro, il meccanismo che, da tutta la vita, forma le immagini che io muto in storie, posso conoscerlo di persona solo adesso che la rete cattura-icone si è staccata e tutte le mie storie sfavillano frantumate, cascano e rinascono.
E intanto sono del tutto coperta da una cerata azzurra: fa caldo, fa freddo, mi usano come tavolo operatorio, mi poggiano attrezzi in faccia e sul petto, ho i tubicini nel naso, il misuratore di pressione pompa e ripompa ogni tot secondi.
Sta comoda, signora? Come no! Se mi dovessi lamentare aumenterebbero le porcherie con cui mi tengono anestetizzata, quindi occorre partecipare, e allegramente: comodissima!
Ma, in verità, l’inciampo accade loro malgrado, accade a dispetto dei bisturi, dei fili per suture che bisogna fissare con la fiamma: chi ha un accendino?, domanda il chirurgo alla folla di studenti e aiutanti che ci circonda. Nessuno fuma più, nemmeno il Vesuvio.
E mentre i medici si affannano, eccola: la città riappare.
Sono in uno dei suoi ospedali.
Questo è nuovo ma, come molti ospedali del Sud, se ne cade già a pezzi. Da bambina, mi hanno tolto le adenoidi senza anestesia in uno dei più antichi, il San Gennaro dei Poveri, sorto nel cuore del quartiere Sanità come lazzaretto nel 1656.
Scendo le scale da sola in questo edificio che intimidisce, affrescato, arredato di saloni e archi, barocco e muffito. Ho cinque anni, mia madre è rimasta ad attendermi in corsia. Entro in una stanza buia. Il primario, che conosco ma detesto, mi dice: apri bene la bocca. Mi spruzza qualcosa in gola, entra con gli attrezzi. Rumore di metallo. Un fiotto di sangue scende da me in un contenitore simile nella forma ai fagioli che mangia zio Paperone.
Questo è il giorno in cui mi appare per la prima volta la Napoli buia, mortuaria e secentesca. La Sanità è il luogo della morte e delle ossa. Qui sono conservati i teschi del cimitero delle Fontanelle, gli scheletri scolati sotto la chiesa del Monacone, i resti delle sepolture paleocristiane nelle catacombe di San Gennaro e delle sepolture ellenistiche nei sontuosi ipogei scavati sotto Palazzo Di Donato, in via dei Cristallini.
Dunque, ecco le prime due parole: occhi e ossa. E poi, di nuovo, volo nell’azzurro: vista dall’alto o dal basso, curva, Napoli è una sfera ottica, il cristallo che guardano le streghe, inclusa Amelia la strega che ammalia; somiglia davvero all’orizzonte convesso che dipinge dal mare Bruegel il Vecchio in una sua rara opera italiana.