antonella cilento

Lisario o il piacere infinito delle donne: l'incipit

Lettere alla Signora Santissima della Corona delle Sette Spine Immacolata Assunta e Semprevergine Maria

Signora mia Pregiatissima, Dolcissima e Valentissima,
oggi, addì 16 di marzo 1640, comincio questo segreto quaderno di lettere all’età di anni undici a seguito di gravissima malattia, ovvero, come ripete la Madre, disgrazia irrimediabile e, come chiosa Immarella, la serva, “nu guaio troppo esagerato”.
Tu, che dalle Stelle vedi tutto, di certo conosci la mia casa ma, non volesse il Cielo Ti confondessi con un’altra Belisaria Morales, detta Lisario, per sicurezza aggiungo: abito nel Castello di Sua Maestà Cattolicissima di Spagna, Napoli, Sicilia e Portogallo, Filippo IV, Dio lo conservi, locato a Baia, presso la Splendidissima Città di Napoli e, comunque, basta che chiedi e tutti Ti sapranno dire chi è la Figlia Sfortunata che Ti scrive.
Ti chiederai come, dacché alle Femmine è vietato lo Studio: appresi a leggere un giorno di quattro anni orsono, mentre crescevo senza fratelli, essendo io nata da Madre Difettosa e menata nell’aia come Gallina senza istrumento, entrando in gran segreto nella Stanza del Padre dove erano i Libri. Curiosa, mi arrampicai sullo scranno per afferrarli, caddi e i tomi mi piombarono sulla testa!
Lì io credo Tu mi abbia illuminato, perché, da Gallina quale ero, mi ritrovai, ripresi i sensi, Sperta di Lettura, e, comprendendo ciò che il libro raccontava, lo rubai.
In pochi mesi appresi compiutamente il Leggere e lo Scrivere sfogliando e risfogliando quel solo Libro che chiamasi Novelle Esemplari dell’eccellentissimo Signor Miguel de Zerbantes, da lui dedicato a don Pedro Fernández de Castro, Conte di Lemos. Ah, quale mondo si apriva ai miei occhi! Certo, subito fui tentata di rubare altri Libri dalla stanza del Padre: un’opera in versi, l’Orlando Furioso di Messer Ludovico Ariosto, un’avventura avventurosa nomata Lazarillo de Tormes di Anonimo e Ignoto Autore (Tu sai chi è, Suavissima?) e infine la commedia Otello o il Moro di Venezia di un albionico a nome Guglielmo Shakespeare.
Le recitavo tutte a memoria queste scritture, intanto rubandone altre, fino a che il Padre se ne accorse – dei furti! – e diede la colpa a Immarella, che alla parola Libro sgranava grandi gli occhi e muoveva la mano chiusa, come cucuzziello, valesi a dire zucchina.
Immarella fu punita e io in questa circostanza scansai disgrazia e appresi l’arte del Recitare, poiché ad altri dovevo ancora sembrare Gallina, ma avevo ormai anima di Volpe.
Suavissima, Ti prego però di tenere il silenzio e il segreto sul fatto che questa povera Cristiana sa scrivere e sa leggere poiché già troppe cose finirono male nella mia breve vita. Eccomi, quindi, alla ragione della Lettera.
Io ho il gozzo. Un brutto gozzo, Madonna Mia Dolcissima, che cresce e cresce. Colpa della mia costituzione canterina, dicono Madre e Padre, malata dalla nascita di straparola.
Infatti, appena partorita, già cantavo, squillante come tromba, tanto che il Medico guardò Madre e Padre, si fece il segno della Croce, e, per la vergogna, giù schiaffoni per farmi tacere: e io mi tacqui. Ma, crescendo, il vizio non scompariva, anzi vorticoso cresceva perché o io cantavo o io parlavo, come speditissimo predicatore, cosa vietatissima alle Piccole Femmine – e alle Grandi – dicendo tutto quello che mi passava per la testa.
Suavissima, mi informarono che la Femmina è nata per obbedire, tacere e soffrire. E, a conferma, ogni volta che io cantavo o parlavo, riceveva schiaffi e schiaffoni.
«Scignetella, agliòttiti la lengua!» dicevano le serve e complimenti simili così tanti che io il canto lo ringoiai una, due, mille volte ed ecco, all’improvviso, una grande palla in gola! E più mi dicevano di stare zitta, più mi si gonfiava delle parole che non potevo dire e delle canzoni che non potevo cantare!
Perché io, Suavissima, vorrei da grande fare la Cantante. Mi piacerebbe assai cantare l’opera melodrammatica dell’Illustrissimo Maestro Monteverdi, canzonette e balli di festa e le Tue Lodi, o mia Signora, ché già conosco tutti i canti di Chiesa in latino!
Ma finisco la Triste Storia: questo gozzo cresce e cresce e tre mesi fa il Padre chiama il Chirurgo e dice: «Taglia!».
E, con mio grande sconcerto, il chirurgo viene e prepara i coltelli.
Scappo, lo confesso, Vigliacchissima Lepre, inciampando lungo gli spalti del Castello, fra le gambe dei soldati, mi calo nel chiassetto, fra sozzure e merde, il gozzo quasi mi soffoca. A prezzo di Grande Schifo mi ero quasi salvata che, ecco, non mi viene il singhiozzo? E così mi sfilano a braccia dal chiassetto mentre non smetto di dibattermi, miserrima e lercia, e finisco legata sulla sedia del Chirurgo. E qui, Orribilissimo Terrore: mi piscio, mi caco, urlo! Ma, niente, neanche le implorazioni a Te, Signora Mia Dolcissima, mi salvano. Mi aprono la gola col coltello: sento uno strappo e vedo il sangue – il mio! – che cola sulla gonna. E penso: muoio.
Infatti, Suavissima, sono morta, per tre mesi. Ho dormito senza sogni, chi Ti scrive è Lisario defunta. Però, proprio ieri, mi sveglio e chi ti vedo? La Madre che piange al mio capezzale, il Padre serio, che la rimprovera. Così io provo a parlare per dire: sono viva! Ma non mi esce fiato, non una parola e odo le serve, che già conoscono la Verità: «Povera criatura, senza lengua! Essa c’ ’a teneva accussì longa!».
Sono muta! Sono spenta, sono un Liuto senza Corda!
«’O Chirurgo ha sbagliato... Ha fatto nu guaio...» dice Immarella.
Corro per le mura, scappo, le mani sulla bocca. Che mi hanno fatto!
Da oggi solo Lettere a Te, Signora mia Dolcissima. Le nascondo qui, sotto le pietre, nella spiaggia del Castello, dove ora scrivo. Arrivano, mi cercano, che il mare le protegga.

Lisario, la Tua Servitrice

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