antonella cilento

Napoli sul mare luccica: estratto

[...] Napoli cresce su se stessa, stretta dalle colline. Dilaga verso i bordi del golfo allungando mani rapaci fino alla penisola sorrentina, dentro l’agro aversano, oltre la zona vesuviana e verso i Campi Flegrei. Tuttavia queste propaggini mutano forma e sostanza, sono code di cui si riconosce l’appartenenza acquisita, non sono certo i polmoni, l’intestino, il fegato della città. Semmai si trasformano, loro malgrado, in organi escretori. Il corpo di Napoli invece cresce in verticale, sprofonda verso il centro della terra, ascende verso il cielo, ma, poiché c’è un limite posto dalla gravità, questa crescita ripiomba su se stessa e schiaccia ogni forma, ne fa poltiglia, modificando caseggiati, monumenti, strade e persone come il tempo scioglie gli orologi di Salvador Dalí. C’è in questo corpo un’anima che parla lingue dimenticate e nuovi idiomi che si cancelleranno in fretta, tornati come sono a una forma unicamente orale, persa la dimensione scritta, la tradizione di ciò che è stato. La città fenicia, greca ed eubea, latina, egizia, bizantina, longobarda e normanna, francese di lingua d’òc e poi di lingua d’oïl, spagnola, catalana e castigliana, austro-ungarica, tedesca, napoletana, lateralmente italiana, americana e ora, come anche in passato, maghrebina e sudamericana, polacca (polacco era l’inventore del locale babà) e ucraina, in ultimo anche cinese, se pure ha un’anima ne possiede una multiforme, è un’anima che prega le cape di morto, le anime dei trapassati, che uccide e non seppellisce, che distanzia e raccoglie, in cui la Babele delle parole è in fondo sempre possibile come forse solo nei Caraibi e nei luoghi in cui il creolo ricrea mescolanze di antiche lingue africane con il francese, l’inglese e lo spagnolo. E lo dimostrano, per fare un solo esempio, certe scritture teatrali di Enzo Moscato, dove le parole parlano se stesse. Ecco, Napoli è un corpo che si autodivora e si autoriproduce, prevede che il visitatore non si accorga di essere precipitato in un grosso intestino ruminante e vada via solo con la sensazione d’aria tersa e d’acqua azzurra che la città propone nelle giornate fresche, quando il vento soffia e tutto sembra tranquillo e infinitamente bello. Per chi è più attento restano, però, piccoli tragitti da compiere, visite alle porte infere, ai balconi dei Campi Elisi, lì dove la città è eterea, dove qualche piccola scala porta su insetti e animali, dove i cocchi delle fate da vie invisibili si travasano dentro Napoli direttamente dall’Irlanda, dal regno di Fairie, e nel tardo pomeriggio appaiono azzurrati a chi scende le scale del Petraio o risale le calate senza traffico. Non si corrono pericoli, allora, almeno non i pericoli dei cani randagi o degli scippatori in motorino, solo pericoli d’incantamento e infatuazione, di abbandono e melanconia, perché attorno a questo corpo mostruoso si muovono le potenze meteorologiche e teatrali delle nuvole, che velano in apparati di scena la luna sul golfo, del celeste dei tramonti, delle albe pallidissime, che muovono i fronti di tempesta lungo la costa e che, per chi ha il tempo di guardare, anche solo un istante, anche seduti in auto nel traffico, tolgono ogni forza. Come può, allora ci si chiede, il miracolo ripetersi?Perché di miracolo si tratta, non importa se fatto di sangue finto come si dice sia quello di san Gennaro. Il fatto è che, spesso e volentieri, questo sangue finto o alieno si scioglie e si rimane prigionieri del corpo ordito in discese e trappole. Disgustati, infuriati, felici.

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